Michela e U.Mani: la storia di una donna che ha cambiato tante vite, prima di comprendere che aveva già tutto nelle sue radici, nelle sue nonne, che oggi la sostengono in un cammino fatto di colori, di arte, di coraggio.
Michela Di Crescenzo è di origine abruzzese, dell’Aquila, le sue radici sono legate ai tessuti e giungono fino a lei dalla linea famigliare femminile che risale alle sue nonne (materna e paterna).
Nonna Maria: la saggezza delle mani
Nonna materna Maria che viveva a Casentino, un paese a 15 km dall’Aquila, è cresciuta imparando le arti femminili dei suoi tempi:
il ricamo, l’uncinetto, la maglia e la tessitura. Maria coltivava il lino e il cotone, lo filava e lo tesseva creando lenzuola, panni per le mestruazioni per le donne del paese, poi li ricamava e lavorava i bordi all’uncinetto. Tutto in colore naturale, quindi le pezze erano bianche e le decorazioni in uncinetto erano color greggio naturale. Michela è cresciuta con l’immagine di questa donna, anima antica di paese, vestita sempre di nero perché rimasta vedova, con queste mani continuamente in movimento: non stava mai ferma, il suo momento di risposo era l’uncinetto. Le sue mani lavoravano instancabilmente. Nel tempo nonna Maria ha preparato il corredo femminile per Michela e le sue due sorelle: lenzuola matrimoniali tessute da lei, coperte fatte all’uncinetto con un cotone fine fine. Nonna Maria è per Michela una radice molto forte. Maria durante il terremoto del 2009 è rimasta sotto le macerie per 33 ore e durante queste ore, le si era creata un’alcova nel letto dove stava dormendo e per mantenersi vigile e presente ha continuato a fare l’uncinetto. Purtroppo questo lavoro fatto all’uncinetto dalla nonna sotto le macerie, nel momento in cui è stata trovata e liberata dai pompieri , Michela non è mai riuscita a recuperarlo. Michela ricorda Maria come una donna saggia, che preparava il fuoco, il pane, che lavava gli abiti alla fonte ghiacciata, cucinava le marmellate e la pasta fatta in casa. Michela da bambina osservava la sua nonna per giornate intere mentre filava e tesseva. Insieme al nonno possedevano diverse terre e così raccoglievano i pomodori assieme, facevano la vendemmia e insieme a tutte le cugine pestavano l’uva a piedi nudi e infine si facevano delle gran bevute di mosto selvatico. Michela ricorda , attraverso un suo attento osservare, sua nonna fare l’uncinetto, la maglia e ricamare vicino al fuoco, seduta su una seggiolina di legno impagliata, affascinata all’immagine di questa donna che stava nel suo fare silenzioso.
Nonna Isolina: la creativa di casa
La nonna paterna, invece, si chiamava Isolina, ed è la donna dalla quale Michela ha ereditato la parte creativa e un po’ più “matta” e divertita di sé. Era una musicista di mandolino, cantava e ballava le danze popolari di Campotosto; insieme al marito vendevano tessuti per confezionare vestiti nella piazza centrale del paese, ma quando ci fu l’avvento degli abiti preconfezionati la loro attività ebbe un grande calo e si reinventarono: iniziarono un commercio di complementi di arredo, lenzuola, coperte, tutto ciò che riguarda la casa, vendendo porta a porta. Michela ha l’immagine dei suoi nonni con queste grandi valigie piene di tessuti, lenzuola e tutto il corollario. Essendo molto forte in Abruzzo la tradizione del corredo le donne erano predisposte ad acquistare. Nonna Isolina era analfabeta, ma nonostante ciò riuscì ad essere una grande commerciante con un carisma brillante. Isolina aveva tre sorelle, tra le quali Luna che era una modista di cappelli, che creava a mano i cappelli e poi venivano abbinati agli abiti.
Entrambe le nonne ricevevano un grande sostegno dai loro mariti.
Michela e U.Mani: tra colore e danza
Michela ha ereditato il carisma e l’arte dei tessuti dalle sue nonne. La vibrazione del colore l’accompagna quotidianamente da quando era bambina: “Mi sveglio al mattino, guardo l’armadio e sento cromaticamente di cosa ho bisogno di indossare, perché sento che quel colore mi fa bene in quel momento. Io vibro assieme al colore. Difatti sul torace non riesco quai mai ad indossare il nero, perché lo sento e lo vivo come una chiusura. Tanto meno lo indosso quando danzo.” Michela è anche un’insegnante di danza africana dell’ovest. Attualmente ha organizzato un progetto d’imprenditoria tutto suo, in cui utilizza cotoni dell’africa dell’ovest che si chiamano wax, che vuol dire cera. Sono tessuti caratterizzati da grafiche e geometrie speciali, nitide , dai colori eccentrici; l’aspetto particolare di questi tessuti è che esistono solo in piccole pezze, ovvero 5,40 metri ogni tessuto e raramente si ripete la grafica, per cui è un continuo esplorare nuovi disegni e nuovi mondi e nuovi accostamenti di colore. “[Questo] mi emoziona molto e tiene viva la mia fiamma“ racconta Michela. La vibrazione del colore è alla base dell’ispirazione di Michela, è ciò che comanda, che dà la direzione. Attraverso questi tessuti crea e cuce complementi di arredo, coperte, copri piumoni, tovaglie e tovagliette, cuscini, rievocando la radice di nonna Isolina.
Dalle radici delle nonne alla sua strada
Solo un anno fa Michela si rende conto di stare ripercorrendo le radici delle sue nonne: “Da circa un anno, mi scontro , più che incontro, con i social media perché devo pubblicizzare il progetto che sto portando avanti, e ogni giorno cerco un messaggio da portare. Una mattina mi rendo conto che tutta l’arte che sto creando e come la sto creando sono il risultato di una sincresi tra le mie due nonne e in più c’è l’innesto dell’Africa che fa parte integrante della mia vita. Sempre in tempi molto recenti mi sono resa conto che sono diventata una stilista perché sono cresciuta con mia madre che aveva una visione borghese dell’abbigliamento
e della vestizione. A me e le mie sorelle “ci obbligava” a vestirci in una certa maniera che sentivo come una grande imposizione.
Così da adolescente sognavo di vestirmi come volevo e sognavo anche che qualcuno creasse dei vestiti proprio per me che avevo forme molto rotonde e piene, e reso così il mio corpo carino poiché non mi ci sentivo affatto. Mostravo alla mia famiglia ciò che loro volevano che io fossi , poi uscivo di casa e mi cambiavo di nascosto dietro i cespugli, prima di andare a scuola, e mescolavo, facevo degli abbinamenti hard con quello che ereditavo dalle mie sorelle più grandi. Così mi sentivo viva, ma non avevo il coraggio di portare in famiglia la mia verità. Feci la scuola di ragioneria, come vollero i miei genitori e poi finalmente giunse il momento delle scelta dell’università. Mi iscrissi a scienze biologiche ma durante le lezioni disegnavo e basta. Il disegno è sempre stato il mio talento originario, disegnavo paesaggi, ritratti, caricature. Capii presto che scienze biologiche non era la mia strada e così decisi di fare un giro a Roma, chiedendo a mia madre di accompagnarmi, ma lei mi rispose che dovevo andarci da sola per scegliere cosa davvero mi piaceva. Così presi la corriera e andai verso Roma.
Gli anni della carriera
Mi affacciai alle scuole per grafica pubblicitaria, proprio perché c’era il disegno. Entrai a prendere informazioni in una scuola di grafica e mentre prendevo informazioni sentivo nell’aula di fianco che parlavano delle spalle e del ‘giro manica raglan’ di Max Mara, e sentii che ciò mi stava riecheggiando dentro e mi si accese una lampadina. Capii lucidamente che la mia strada era quella. Quello stesso giorno cambiai direzione e andai a fare visita a tre scuole di moda. Ne scelsi una, tra l’ altro scoprii dopo che la direttrice era abruzzese come me. Sentii che quella era la mia scuola, la mia direttrice e la mia strada. Tornai a casa e dissi a mia madre che avevo scelto. Da quel giorno si organizzò la mia vita attorno a quella strada. Così a 19 anni, mi trasferii a Roma per frequentare il triennio. Il secondo anno vinsi due borse di studio per andare a Parigi, dove lavorai per sei mesi per un maglificio di moda. Quindi vissi intorno al filare , alle macchine che tessono. Fu un’esperienza bellissima e arricchente. Ero la stilista, la creatrice, avevo le visioni di ciò che poi veniva concretizzato realmente, realizzato. Tornai a Roma e finii il terzo anno di scuola e vennero a fare visita dei personaggi di alcune aziende a cercare nuovi talenti, e ci fu un art director della Perla Group, che mi vide e gli piacque quello che facevo e mi propose di venire a Bologna a fare un anno di prova. Così a giugno finii la scuola e a settembre mi trasferii a Bologna e feci un anno di prova alla Perla come stilista. Dopo quell’anno mi fecero un contratto a tempo indeterminato. Ho lavorato come art director di un mio piccolo staff completamente al femminile per 9 anni e mezzo. Poi iniziò la crisi del tessile e la tensione all’interno tra i dipendenti diventava sempre più forte. In realtà il mondo della moda già strideva con me da tempo, perché sentivo che quel mondo non mi era mai appartenuto. Quando la situazione andò peggiorando , iniziai davvero a soffrire: mi sentivo immersa in una grande superficialità di anima devota all’apparenza, non si stava nell’essere ma solo nell’apparire. Non si parlava di Arte ma del FACCIO VEDERE CHE.
Io mi sentivo completamente dall’altra parte , credevo profondamente nelle relazioni umane e mi sforzavo di essere una di loro, ma mi riusciva veramente male. Decido di licenziarmi e mi arriva una grossa proposta di lavoro da un’altra azienda come stilista, a cui accettai ma alle mie condizioni. Trascorso un po’ di tempo l’azienda mi propone di fare una linea sulle mie capacità creative, quindi si stava prospettando un progetto di una linea tutta mia, finalmente una linea basata su ciò che io sento e non su ciò su cui mi adatto. Sulla scia di questa pienezza mi chiama un marchio ancora più grande che ha sede a Firenze. Vado a fare il colloquio e capisco che questo marchio mi vuole, così me la gioco e rilancio con una proposta di stipendio ancora più alto. Questo grande marchio accetta, ed io davanti alla mia richiesta accolta sentii paura. Questa azienda mi avrebbe fatto fare un grande salto qualitativo nell’ambito della moda portandomi a viaggiare in tutto il mondo. Ma avevo paura, tanta paura del successo. Il successo mi dava consapevolezza del talento che avevo. Non ero pronta ad accogliere il mio talento, per me era troppo da sostenere.
Michela e U.Mani: il mio no e la crisi
Così rifiutai, rifiutai ciò che viene considerato il sogno di chiunque lavori in quell’ambiente. Rientro da questo no, forte delle mie passioni che erano la danza e il mio compagno e fiduciosa di ciò che mi aspettava a livello professionale con la creazione di una linea tutta mia. Purtroppo si riaffaccia la crisi nel tessile e vengo licenziata da un giorno all’altro. Mi ritrovo dalle stelle alle stalle nel giro di brevissimo tempo. Mi assalì un grande senso di povertà, paura e disistima verso me stessa. Non riuscivo a riconoscere ciò che avevo fatto fino a quel momento ma vedevo solo una grande sconfitta. Le mie fragilità emersero dentro di me. Per un anno intero cercai lavoro ovunque anche all’estero, ma nessuno mi aprì la porta, ritornai persino a propormi al grande marchio, ma non ero più in tempo: ero diventata trasparente. Avevo perso un aereo non un treno. Così ho attraversato questo periodo buio, di grande incomprensione, in cui non capivo perché mi trovavo in quel punto e verso cosa dovevo andare, non capivo perché tutte quelle porte chiuse. Nonostante tutto continuai a disegnare perché la vita della mia anima era il disegno, avevo una creatività di getto, avevo visioni vere e proprie , anche nei sogni. Dopo questo anno di puro oscurantismo, una mia conoscente mi dice che crea un evento in un piccolo parco di Bologna e mi chiede se voglio fare qualcosa. Accetto e decido di prendere delle t-shirt bianche e dipingerle. Ogni t-shirt era un quadro; i disegni che dipingevo mi prendevano almeno tre giorni di tempo, poiché avevo la visione del disegno, poi lo disegnavo su carta e infine lo dipingevo con i colori per tessuto. Ho sentito che per me rappresentava una vera e propria prova , quindi ho svenduto queste magliette perché avevo bisogno di mettere i piedi in un nuovo territorio.
Quando il sogno diventa salto…
Ogni t-shirt la firmai con questo nome Mani, perché ero passata da money, soldi , tanti soldi che avevo messo da parte perché conducevo una vita molto semplice, a Mani , l’uso delle mani: mi arrivò in sogno limpidamente. Mi chiesi di che colore farlo e mi dissi rosso, perché lo sento un colore vincente! Le t-shirt non mi bastavano più perché la mia creatività aveva iniziato a cavalcare e così feci delle esposizioni artistiche con le mie t-shirt, ma iniziai anche a voler creare dei vestiti da donna. Quindi venne da sé questa linea chiamata appunto mani dove utilizzavo jersey, tessuti elastici confortevoli e comodi, ma costruiti su dei volumi molto femminili. Erano l’emblema di ciò che ero io in quel momento: una donna giovane, pratica e femminile. Così creai questo marchio, facendo cucire gli abiti da delle sarte, e riempivo le valigie dei miei abiti come faceva mia nonna paterna Isolina ,e partivo. Viaggiai verso Venezia, Cremona, Roma e proponevo il mio campionario nei negozi, anche negozi di marchi importanti. Intanto facevo anche dei market artigiani. In quel periodo quei soldi mi permisero di giocare. Ad un certo punto tutto prende piede perché vari marchi , dal più comune al più strutturato, iniziarono a comprare i miei abiti, ma ci doveva essere un salto perché sentivo che la realtà mi chiedeva di crescere: doveva esserci un rappresentante che andasse in giro e qualcuno che curasse il marketing. Di nuovo non ebbi il coraggio di fare questo salto, di nuovo la paura. Pensare che addirittura mi arrivò un ordine dal Giappone. Insomma non riuscii a fare il salto. Entrò nella mia vita un uomo, il mio attuale compagno originario del Mali. Nel giro di un anno ho scelto di strutturare questa relazione, e rimango incinta. Il mio compagno aveva già un figlio. Così divento mamma di due figli nel giro di breve, mentre lui era sempre in giro perché musicista. La vita mi mise davanti ad una scelta poiché non potevo nutrire entrambe le mie famiglie, quella dell’abbigliamento e quella del cuore.
Michela e U.Mani: la nascita del proprio cammino
Così decisi di nutrire quella del cuore e fare la madre di questi due figli e ho mollato tutto, tranne l’insegnamento della danza che nel momento della disoccupazione divenne un vero e proprio lavoro. Danzo da quando avevo 22 anni, da subito fui attratta dalla danza africana dell’ovest, e mi ricordo che il primo libro che lessi fu “Radici”, insomma il mio legame con l’Africa divenne sempre più forte. Già molti anni prima di conoscere il mio attuale compagno viaggiai spesso in Africa dell’ovest proprio perché volevo conoscere le radici antropologiche della loro tradizione riguardo la danza. Inoltre per tre anni in estate sono stata volontaria come direttrice artistica in un villaggio tra il Senegal e la Mauritania, fatto di sole donne, e attraverso questo progetto ho insegnato loro a tagliare, cucire e confezionare complementi di arredo. Queste donne tingevano a mano i tessuti con tinture naturali. Durante quelle estati mi ritrovai a cucire a piedi nudi con delle macchine da cucire a pedali, e mentre cucivo ebbi una visione: sentii che lì c’era una missione per me, ero nel posto giusto con i piedi nudi sulla macchina giusta. Lì ho conosciuto i tessuti wax, attraverso cui realizzano i loro abiti. Una bomba di colori, in questi luoghi non esistono il bianco o il nero, c’è l’energia del colore. Quando i figli iniziarono ad essere un po’ più grandi non sapevo bene come ricollocarmi nel mondo del lavoro. Arriva il lockdown e si ferma tutto, il mio compagno non lavora perché musicista, io non posso danzare, e grande paura di nuovo. Come si fa ad andare avanti? Una mia cara amica che lavora nel marketing mi propone di provare a fare delle mascherine in tessuto wax. Non sapevo neanche come si facevano le mascherine, ma ci provai e fatte le prime mascherine feci delle foto e le postai sui social media. Arrivarono i primi ordini. Giungiamo alla festa della mamma e feci una foto con mia figlia , in sala, vestite a festa e ingioiellate, con le mascherine di wax entrambe sul volto e scattai questa foto, come a raccontare una nuova maternità che stavamo vivendo. Fu una foto molto forte, senza volerlo! E mi arrivarono tantissimi ordini. Il mio compagno tagliava, io cucivo e mia figlia mi incoraggiava: “ Mamma ce la fai!”. Sempre questa mia cara amica mi consigliò di iniziare a cucire qualcosa per la casa, dal momento che eravamo sempre chiusi in casa. Così iniziai a fare delle tovagliette. Iniziarono ad arrivare ordini anche dal Belgio. Feci federe per il letto , copriletto e questa linea venne su da sé, finchèénon mi arriva voce che ci sarebbe stato un bando per vincere un luogo che era in disuso destinato a progetti di imprenditoria femminile.
Michela e U.Mani: l’inizio
Il bando si chiamava N.I.L.D.E. , nuova impresa libera donne eccezionali, decisi di partecipare e vinsi il bando. In questo progetto, per la prima volta nella mia vita professionale, ho la sensazione di essere spinta da dietro, come se le mie ave, le mie nonne mi dicessero vai. Così mi assegnano questo spazio e cerco un nome da dargli: sento che MANI c’è , ma c’è anche una trasformazione, in quanto ho un luogo dove voglio accogliere gente, dove porto quello che io amo ovvero la relazione umana; voglio ascoltare e sentire le storie delle persone che attraverseranno questo luogo, di che colore hanno bisogno in casa, come posso far vibrare queste stoffe nelle loro case. Così arrivò il nome : U.MANI. Questa è la mia ultima mission e sono finalmente senza paura! Non c’è più paura!”.
Abbiamo fatto l’intervista nella mediateca di un comune di Bologna dove le hanno chiesto di fare un’installazione artistica dal titolo “Il coraggio del colore”: “ mentre cucivo l’installazione ho visto e sentito la presenza di mia nonna Maria e ho visto le sue mani, mi dice: “Vai vai, cuci e vai!”. Sono proprio dove devo stare. E mentre pensavo al titolo, ho sentito che ho avuto il coraggio del colore anche nella scelta del mio compagno, della mia famiglia mezza africana, una famiglia colorata che è ciò che porto e sostengo. Le mani di mia nonna Maria si stanno intrecciando alle mie. Mai sentita così vicina e dentro di me.”